Fine della trilogia

Questo è l’ultimo, almeno per ora.
E’ ancora fresco, buona lettura.

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Giulio Romano – Ritratto di Margherita Paleologa – Hampton Court, Londra
Brutta.
Sono brutta.
Ho provato a nascondermelo, a coprirlo con oro e pietre preziose, pizzi e merletti, belletto, a usare il mio titolo, il mio potere, ma la realtà è sempre quella, sono brutta.
Ancora più brutta perché lei è bella. E’ bella, bellissima. Lineamenti puri e delicati, sguardo profondo e ammaliante, curve tornite, seni alti, movenze aggraziate. E’ sempre stata bella, non solo adesso che è una donna di corte, era bella anche quando passava con le sue vesti comuni per le vie della città, bella da far voltare la gente, da togliere il fiato. Ora non si possono più voltare, il signor Duca farebbe loro cavar gli occhi, e se nella giornata fortunata li ospiterebbe a lungo nelle carceri buie e fredde. Ora è solo sua, la Boschetta, ora è solo per i suoi occhi, per il suo cuore, per le sue carezze, per le sue labbra.
Ieri il marito è morto, una rissa, questioni di debiti dicono, colpito a morte in un vicolo e lasciato lì al freddo, con la vita che scorreva via dal suo corpo, il sangue a far da corona al suo corpo, a far risaltare la sua lividità sul freddo selciato. Debito? O impiccio alla liberta del mio Duca? Difficile deciderlo, lui è opportunamente morto e il mio Duca non trova più un grosso ostacolo sulla sua strada.
Ora la Boschetta può vivere a Palazzo, al Teieto, veramente ci viveva già, le sue stanze sono state create quando si è cominciato a costruire il palazzo, tutto era atteso e niente è successo per caso.
Perché lei è bella ed io sono brutta.
Io sono la moglie, lei era la moglie di un altro, ma lei è bella ed io brutta, io vivo sola, servo solo a far figli, tanti, sette, e per le occasioni ufficiali, in fianco al mio Duca, a rappresentare il mio stato il mio Monferrato.
Ma di solito il mio letto è freddo, non sono io che scalda il letto di Federico, Isabella giace con lui, Isabella lo ama ed è amata.
Federico e Isabella. Belli tutte e due. Bellissima lei, bello ed elegante lui, figlio dell’altra Isabella, la madre, bellissima, colta e intelligente.
Lei la odia l’altra Isabella, ma stavolta il figlio non si è fermato neppure davanti alla madre, stavolta ha ascoltato solo il suo cuore. Non ha temuto niente, ragione di stato, alleanze, decoro, onore. La ama, vive per lei. Mio marito.
Io non volevo sposarmi. Toccava a Maria, mia sorella, una bambina, otto anni, ma morì prestissimo, e  tocco a me, Margherita Paleologa, suggellare l’unione tra Monferrato e Mantova.
Pegno necessario per il mio marchesato, dono e vincolo di un’unione di comodo.
Il mio Monferrato. Terra di colline, ai piedi delle montagne, terra verde, di vigne e di girasoli, terra di vini forti e delicati, preziosa e ricca, terra in cui correvo giocando da piccola, terra da cui sentivo l’odore del mare quando il vento aveva la direzione giusta. E adesso vivo a Mantova.
Terra di nebbia e freddo, di umido e acqua, di caldo soffocante in estate, terra di zanzare e di contadini, confinata nel mio palazzo appoggiato al Castello.
Il Giulio di Roma l’ha costruito, il destino crudele di avere la dimora costruita dallo stesso mastro che ha costruito il nido d’amore di mio marito. Il palazzo meraviglioso sull’isola del Teieto.
Anche il mio palazzo è bello, gli affreschi gioiosi e stupendi, le stanze ampie, i camini riscaldano, gli arazzi aiutano a far caldo, l’unico calore in questa casa.
Ad iniziare dal mio cuore è tutto freddo e lontano, la mia terra, i miei parenti, i miei figli educati a corte, mia suocera che odia l’amante di suo figlio, ma non ama me, mio marito nelle braccia di Isabella.
Io speravo in Isabella, la madre, anche lei bella, bellissima, donna che non sopporta i no, ma che ha dovuto subire quello di Leonardo, non ha mai avuto il ritratto che sperava. Spesso la trovo a fissare il disegno del fiorentino, ma le è rimasto solo quello. Donna forte, si dice che abbia provato ad avvelenare l’Isabella, ma mai capace di un gesto di affetto. Solo lo stato conta, solo il ducato, solo Mantova, e solo un pensiero alla sua Ferrara. Io sono servita, ora non servo più, posso stare in disparte e non disturbare troppo.
Ho solo alcuni compagni, i libri.
Leggo. Passo i giorni a leggere, a sfogliare le pagine, a scorrere le righe, a vedere i colori dei codici antichi, le figure. A leggere di amori nobili, cavallereschi, a fantasticare di terre lontane e figure mitologiche, di cavalli alati, serpenti tentatori, fanciulle amate e salvate. A sentire la voce dei libri.
Perché i libri parlano.
Parlano al cuore, ma parlano anche alle orecchie, respirano quando giro le pagine, schiocca il dorso quando li apri, sussurrano quando la pagina si adagia sull’altra frusciando, alzano la voce urlando quando chiudi il grosso tomo di scatto perché infastidita, crepitano lanciati nel fuoco quando li odi. Sono l’unica casa viva nella mia vita, sono le uniche parole che arrivano al mio cuore, sono le uniche speranze di un domani migliore. Voci di passati lontani, attese di giorni migliori, certezze di vite più felici.
Non la mia. Non la sua di Federico. Ama Isabella, ma non riesce a resistere al fascino femminile, al mistero nascosto dalle gonne di raso e seta, come il padre soffre di mal francese[1], la sua fine è segnata, certa. Ma vive i suoi ultimi tempi felice.
Non io. Io sono sola, distante, isolata. Le ancelle mi considerano buona, delicata e gentile, ma resto sempre e comunque sola. Infelice. Non amata.
Brutta.
La nebbia sta fasciando il castello, la bruma sale dai laghi e offusca le mura, i possenti torrioni, i delicati affreschi. La nebbia nasconde, filtra l’immagine.
La nebbia è la mia alleata. Quando c’è la nebbia sono meno brutta.

 


[1]Mal francese: termine arcaico con cui veniva indicata la sifilide in tutta Europa, tranne in Francia dove veniva chiamato Mal di Napoli

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